Category Archives: Coaching e Formazione

“Il Cervello Emotivo e Sociale”

Cos’è la mente e come funziona?

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É difficile dirlo…

Diverse discipline scientifiche hanno tentato di darne una spiegazione…

Oggi la neurobiologia interpersonale descrive la mente come il risultato armonico dell’integrazione tra processi cerebrali e mentali, meccanismi neurobiologici e relazioni interpersonali. Dunque, oltre alle connessioni sinaptiche, anche le connessioni comunicative con gli altri giocano un ruolo molto importante nella costituzione dei processi mentali.

Le esperienze sociali che nel corso della vita maturiamo sono fondamentali per la crescita della nostra mente; esperienze che coinvolgono necessariamente la nostra sfera emotiva-affettiva, senza la quale non è possibile giungere ad una reale comprensione dell’essere umano. Infatti, le neuroscienze ci dicono che non è più sufficiente circoscrivere il campo d’indagine allo studio dei soli processi cognitivi, ma che occorre anche esplorare lo sviluppo emozionale e sociale di un individuo!

In particolare, oggi sono le neuroscienze affettive (area disciplinare in rapida espansione), che, con i loro studi mirati e altamente specialistici, riconoscono il cervello umano come un cervello emotivo e sociale, le cui complicate connessioni cerebrali vengono plasmate in modo diretto dalle interazioni interpersonali. Per mezzo delle tecniche di neuroimaging, della biologia molecolare e della neurogenetica, si è ormai giunti alla consapevolezza che il cervello non è statico e fisso, ma modifica costantemente le sue connessioni strutturali (e, di conseguenza, le sue funzioni neuronali) nel corso della vita, anche grazie alle interazioni con gli altri. E questo succede fin dalla nascita! Pensiamo al neonato: egli non ha coscienza di sé, ma sono i genitori (specialmente la madre) che devono farsi interpreti delle sue emozioni per comprendere di cosa abbia bisogno. Ed è proprio grazie al continuo dialogo e scambio di comunicazioni inconsapevoli e non verbali che avviene tra madre e neonato, che si costruisce la struttura mentale del bambino. Infatti, i primi due anni di vita, rappresentano una fase cruciale per lo sviluppo morfologico del cervello infantile e la madre, assumendo la funzione di “regolatore psicobiologico esterno”, influisce direttamente sulla crescita delle strutture cerebrali del bimbo, che, appunto, nei primi due anni di vita vanno organizzandosi. E qual è l’area del cervello maggiormente coinvolta in queste esperienze di accudimento e di relazione precoci? L’emisfero cerebrale destro, sede dell’elaborazione delle informazioni emotive non verbali, inconsce e soggettive, che viene comunemente definito emisfero emotivo.

Pertanto le esperienze emotive, affettive e relazionali che un essere umano fa, a partire dalla nascita, contribuiscono in maniera importante alla maturazione della sua mente/cervello, in quanto la capacità funzionale delle varie reti neurali dipende, come illustrato poc’anzi, dal tipo di esperienze sociali assimilate. Dunque, le trame relazionali che si instaurano nel corso della vita sono significative per un individuo: il cervello/mente raggiunge uno sviluppo completo solo se si trova in un contesto interpersonale, cioè nella dimensione comunicativa di un incontro con un altro che, se sa sintonizzarsi, realizza una sorta di “ponte relazionale empatico”, fondamentale per la piena maturazione del cervello stesso e quindi per una corretta evoluzione del sé.

Ma, d’altronde, non lo sosteneva già Aristotele, in tempi non sospetti, che l’uomo è un animale sociale?

Alessia Cenzato

“Lo sport come metafora della vita”

Lo sport è la metafora della vita: ti insegna a compiere sacrifici, a credere in degli ideali, a lottare per qualcosa, a rialzarti dopo una caduta.

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Ti insegna che se una partita dura 90 minuti ci devi credere e devi correre per quei fottutissimi 90 minuti, perchè se ti fermi prima, se molli prima, hai già perso in partenza. Ti insegna che devi dare tutto, che anche quando sei stanco devi metterci la grinta e continuare a lottare, perchè altrimenti sprofondi.

Ti insegna che devi accettare il verdetto del campo, che se incontri qualcun’altro più forte di te, ti devi inchinare e riconoscere il suo valore. E che se non sei stato abbastanza bravo e all’altezza della situazione devi inchinarti lo stesso, e riconoscere i tuoi limiti. Ti sprona a migliorarti, a crederci sempre e a non arrenderti mai. Ti insegna che nulla è impossibile, che a volte i miracoli accadono. Ma solo a volte. Perchè alla lunga vince poi sempre il più bravo. E con “bravo” intendo colui che ha avuto la determinazione e la costanza di coltivare il suo talento. Passione, sacrificio, talento.

E poi ti insegna due valori fondamentali: la solidarietà verso i propri compagni di squadra e il rispetto per l’avversario. E non a caso ho usato il plurale prima e il singolare dopo: perchè sono dell’idea che la forza del gruppo possa reggere l’urto di ogni avversità. Ma se sei in un gruppo e un tuo compagno molla, allora è finita. E forse questo è un po’ quello che è successo alla Juve ieri sera.

Lo sport arriva anche a farti versare lacrime, che siano di gioia o di delusione poco importa: è l’emozione che sta dietro a quelle lacrime che è importante, perchè lo sport ti fa emozionare, ti fa vivere. E non mi riferisco solo al calcio, questo discorso vale per tutti gli sport. Il punto, però, è che ci si dovrebbe fermare a questo, nello sport, così come nella vita: a versare lacrime. Lacrime di fatica, sudore, speranza, felicità, amarezza, passione per quelli che sono i propri valori e i propri ideali.

A lottare sì per il proprio credo, calcistico o religioso che sia, senza mai perdere di vista il rispetto per l’avversario. Ma il problema è che non siamo capaci di fermarci a questo. Dagli sfottò senza senso e beceri nel mondo del calcio quando l’avversario perde, all’eliminazione fisica dell’avversario nel mondo là fuori, solo per citare due esempi attuali di che cosa significhi oggi aver perso il rispetto. Rispetto che, forse, non abbiamo mai avuto. Sicuramente paragonare le due cose può sembrare a prima vista azzardato, ma se ci fermiamo un attimo a riflettere e ci spogliamo di ogni ipocrisia, ci rendiamo conto che non è un confronto poi così assurdo. Paragonare la delusione per una sconfitta in una partita di calcio alla delusione che nasce spontanea nel guardarci intorno e vedere il mondo andare a rotoli, è da folli.

Ma signori, l’altra sera poco dopo le 22.00 nel mondo, nel nostro mondo, è andato in scena tutto questo: Cardiff, Torino, Londra. Tralascio i commenti sui fatti impietosi di Londra e anche su quelli di Torino (che poi sono figli, in un certo qual senso, di quelli londinesi), poichè non mi reputo all’altezza di commentarli, senza cadere nel banale e nei soliti luoghi comuni. “Abbiamo perso la libertà”, “siamo schiavi del terrore”, oltre a questo, non saprei dire altro. Lascio, pertanto, l’analisi di tali drammi a chi è più competente di me, gli slanci empatici di vicinanza a morti e feriti a chi è solito usare i social più di quanto lo faccia io, e mi tengo le mie umili e discutibili riflessioni a riguardo, con le mie convinzioni, i miei sentimenti e le mie speranze.

Io mi tengo le lacrime che arrivano da Cardiff, quelle sane, quelle di Gianluigi Buffon, perchè sono le lacrime che nello sport, e nella vita, ho versato anch’io tante volte. E che continuerò a versare. Perchè è questo il mondo in cui credo, la mia fede. Ragazzi, ci riproveremo l’anno prossimo, con ancora più grinta e convinzione. Pronti, come sempre, a rialzarci.

 #finoallafine Forza Juventus!

Alessia Cenzato

 

“Entusiasmo e scoperta” al LEGO® SERIOUS PLAY® workshop

Grande entusiasmo tra i partecipanti al LEGO® SERIOUS PLAY® workshop che si è tenuto in questi giorni presso il Centro AIDE.

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Mai avrebbero pensato i partecipanti di venir coinvolti così tanto dai famosi “bricks” in attività serie miranti alla scoperta non solo delle proprie qualità nascoste, ma delle qualità del gruppo creando così una squadra collaborativa e vincente.

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Impiegando i mattoncini per costruire e condividere una storia, si passa sempre dall’individuale al collettivo ed è proprio in questo che risiede l’efficacia del LEGO® SERIOUS PLAY® method. Non esiste persona che non abbia conosciuto il mondo attraverso l’interazione manuale con gli oggetti. Già il famoso pedagogista e psicologo Jean Piaget, attraverso la sua teoria degli stadi dello sviluppo cognitivo, affermava che i bambini non acquisiscono conoscenza un pò alla volta, ma usano le loro esperienze del mondo per costruire le loro “strutture cognitive”.

Quindi noi non siamo dei contenitori passivi, ma dei costruttori di teorie, soluzioni e strategie. lego-100
Le mani, nel LEGO® SERIOUS PLAY® workshop, diventano uno strumento di “innovazione e soluzione strategica”.  Non esistono più delle riunioni 20/80 dove i partecipanti si ritraggono fisicamente (leaning out) allontanandosi dal contesto ed assumendo una posizione divergente. Manager e leader creano inevitabilmente una situazione 100/100!

Questo è proprio quello che si è creato durante il workshop presso il Centro AIDE dove il potenziale di ogni partecipante lego-148 ha creato nuova conoscenza unendo i fini individuali e quelli del team.  Un gruppo che sappia tener conto delle caratteristiche del sistema/organizzazione di cui fa parte, di come questo possa evolvere e reagire di fronte a situazioni nuove o di “emergenza” non prevedibili, di cosa si può modificare e ciò che invece è indipendente dalla sua portata crea una reale connessione tra i fini dell’azienda e quelli dei dipendenti.

Il LEGO® SERIOUS PLAY® workshop è un’esperienza da provare, perchè non si può raccontare!!!!

A presto

M.Cristina Raga

“Mindfulness: Un modo nuovo di diventare consapevoli”

Vi sarà capitato di guidare, fare la doccia, lavare i denti in modo automatico, con la testa completamente rapita da altro. Ecco, è in queste occasioni, dove la mente si allontana dall’esperienza precisa che stiamo vivendo, che la Mindfulness può intervenire a recuperarla e focalizzarla su quel preciso momento.

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Si tratta della capacità di portare l’attenzione al presente in maniera intenzionale e sospendendo il giudizio. In poche parole, un processo mentale che ha sì le sue origini nella meditazione di stampo buddista (da cui ha eliminato però la componente religiosa), ma che si propone di entrare a far parte delle azioni che la persona compie quotidianamente portando a un nuovo, e migliore, stile di vita.

“Aumentare la consapevolezza dei nostri stati mentali, cioè delle emozioni, dei pensieri e delle sensazioni fisiche, accresce la flessibilità mentale. In questo modo vengono meno gli automatismi, e la mente è più lucida” (Kabat-Zinn, 1990). Cosa significa? Che è più probabile che reagiamo alle situazioni, anche quelle di difficoltà, con delle vere e proprie risposte piuttosto che con delle reazioni impulsive: come se d’un tratto quella sorta di pilota automatico che normalmente affianca i nostri processi mentali si spegnesse e lasciasse spazio al vero io.

 

Come si fa?

La consapevolezza può essere coltivata in molti modi, che possiamo distinguere in pratiche formali e pratiche informali.  Definiamo formali quelle pratiche che sono scandite da un inizio ed una fine (es. body scan, meditazione seduta, meditazione camminata), e che portiamo avanti in un arco di tempo stabilito osservando delle precise istruzioni. E’ fondamentale ritagliarsi spazio e tempo, nel corso della  giornata, per dedicarsi alla meditazione attraverso una delle pratiche formali.

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Tuttavia, ci si può allenare alla consapevolezza in qualunque momento della giornata anche attraverso le cosiddette pratiche informali. Le normali attività quotidiane, come guidare la macchina, preparare il caffè, fare la lavatrice, eccpossono diventare piccoli e preziosi attimi di consapevolezza, nel momento in cui portiamo una piena presenza in quello che facciamo.

Da molti anni la Mindfulness è oggetto di rigorose ricerche cliniche ed oggi viene inserita nei protocolli terapeutici ufficiali per molti disturbi e problemi, in particolare per la depressione, i disturbi d’ansia e le sindromi dolorose.

Sono stati dunque elaborati dei protocolli e delle modalità di intervento terapeutico che si basano sulla pratica della mindfulness. I più noti sono la MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction), la MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy) e una ulteriore evoluzione che è l’ACT(Acceptance and Commitment Therapy).

 

Perché si pratica?

Entrata nella pratica clinica dalla fine degli anni ’70 come rimedio allo stress grazie al biologo americano Jon Kabat-Zinn, ora la Mindfulness è considerata da diversi esperti una leva per l’avviamento delle pratiche cognitive di nuova generazione.

La  ricerca si è aperta infatti negli ultimi anni a declinazioni che spaziano dalla comprensione dei disturbi dell’umore alla gestione dell’ansia e delle crisi di panico, del disturbo ossessivo compulsivo, del dolore cronico, fino a volerne investigare gli effetti anche nel mondo dell’infanzia e nel campo dell’apprendimento.

Ma è anche fuori dall’ambito clinico che la Mindfulness riscontra un alto tasso di gradimento del pubblico. Alle strutture specializzate si rivolgono infatti sempre più spesso persone che vogliono percorrere questa strada per provare ad aumentare le proprie capacità di concentrazione in vista di traguardi importanti come quelli delle performance sportive, del mondo dell’imprenditoria e della finanza.

Cosa dicono le neuroscienze?

Il versante dove la ricerca sta provando a dare risposte più immediate è sicuramente quello delle neuroscienze dove, in particolare grazie alle nuove risorse strumentali, è possibile oggi raccogliere informazioni sempre più dettagliate e in tempi anche rapidi sugli effetti della Mindfulness sul cervello. Attraverso le tecniche di imaging cerebrale, per esempio, sono stati individuati cambiamenti nella morfologia di alcune aree della corteccia in seguito a trattamenti di almeno 8 settimane, e in particolare in quelle deputate alla memoria, all’empatia, alla consapevolezza di sé e allo stress.

 

La mia esperienza personale

Da circa un paio di anni, ricopro il ruolo di formatrice di corsi Mindfulness sia a livello individuale che di gruppo.  Da queste esperienze altamente formative, ho potuto trarre alcune considerazioni personali.

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Sono giunta alla conclusione che la pratica della Mindfulness, ci aiuta a differenziare la nostra esperienza mentale e ad integrarla, a sviluppare non solo nuovi schemi di lettura della realtà, ma anche una diversificazione della nostra consapevolezza. Non giudicando ci accorgiamo che, attraverso la meditazione, i giudizi possono cambiare nel tempo, le emozioni negative o positive si modificano da sole e il modo in cui soffriamo o gioiamo delle cose cambia. Il cambiamento esistenziale nasce, perché quando viviamo momenti felici sappiamo che sono passeggeri e possono subire trasformazioni, quindi ne beneficiamo maggiormente. Nel tentativo di proteggerci dal dolore invece, solitamente mettiamo in atto meccanismi che generano angoscia e/o somatizzazione. Grazie alla pratica di consapevolezza, quando la sofferenza arriva, sapendo che tutto passa, riusciamo ad accettare e tollerare maggiormente sia il dolore fisico che psicologico.

La Mindfulness include quindi il concetto di transitorietà, consentendoci di comprendere che il presente è davvero prezioso. Anche nei momenti difficili siamo aperti al pensiero che stiamo soffrendo, ma lo facciamo senza giudizio e ciò fa sì che la sofferenza cessi insieme al dolore. Non c’è un prolungamento della sensazione psicologica di sofferenza all’esaurirsi di quella dolorosa. Si diventa capaci di amare, di accedere alle proprie risorse, si accetta, si accoglie, non ci si fa trascinare dalle emozioni, si riesce a “stare” nei momenti difficili.

Tutto questo è possibile, se applicato con continuità. Il programma infatti, è strutturato in otto settimane proprio per fare in modo che, gradualmente e senza un tempo prefissato, ciascuno possa raggiungere un’accettazione di sé e vivere pienamente le proprie esperienze. L’obiettivo finale è quello di generalizzare ed estendere questa consapevolezza a tutte le situazioni di vita quotidiana, acquisendo l’abitudine mentale di godere e vivere appieno qualsiasi tipo di attività.

Il potere della nostra mente è grande. Se essa divaga, può dirigersi ovunque con il rischio per noi di perdersi dietro di essa. L’importante è diventare coscienti di ciò che sta accadendo e, quindi, di scegliere se permettere o meno a pensieri, emozioni o sensazioni di restare. La Mindfulness ci insegna a fare nostra questa modalità dell’essere, a divenire quindi meno vulnerabili di fronte alla potenza del pensiero e a rendere, di conseguenza, la nostra mente più forte.

 

Dott.ssa Elisa La Marra

 

“E se quei mattoncini fossero di più che semplici mattoncini?”

Da BILLUND ad IVREA!

Siete degli appassionati dei giochi della LEGO®?Al contrario non avete mai costruito niente (o poco) con i famosi mattoncini nell’arco della vostra vita?

Non vi preoccupate!

Il metodo LEGO® SERIOUS PLAY® è veramente alla portata di tutti!

Che cos’è? 

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E’ una nuova metodologia nata per elaborare attraverso il “gioco serio” strategie di business che porta con sé molti vantaggi dati innanzitutto dallo strumento: i mattoncini LEGO®.

Oltre all’immediatezza ed alla facilità dell’uso dei mattoncini, è il processo che fa la differenza!

Non si tratta più di replicare la realtà costruendo modellini di qualcosa di esistente, ma piuttosto di esplorare una realtà spesso inconsapevole, attraverso le metafore e lo storytelling.

Così il metodo LEGO® SERIOUS PLAY® diventa ideale per lavorare sui gruppi, nel team building, per risolvere problemi complessi, per definire strategie di business e value added proposition, perché aiuta a semplificare la realtà ed a trovare soluzioni inattese.

Da qui si può partire per applicare il metodo in diversi ambiti, ad esempio negli assessment o in colloqui individuali o per gestire riunioni.

E’ molto versatile, ma con un processo ben definito… altrimenti non sarebbe LEGO® SERIOUS PLAY®.

Dove puoi provarlo?

foto con Per color

Ad Ivrea presso il Centro AIDE sono presenti Facilitatori Certificati direttamente da uno dei fondatori del metodo, Per Kristiansen.

Vi aspettiamo per saperne di più!

 

Luisa Danieli

“Chi è il Neuropsicologo e perchè andarci?”

La neuropsicologia è la disciplina che indaga le funzioni cognitive superiori del sistema nervoso centrale e ne studia le possibili alterazioni.

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Per funzioni cognitive superiori si intendono capacità necessarie per la vita quotidiana quali: memoria, attenzione, linguaggio, percezione, ragionamento, funzioni esecutive, prassie; funzioni, queste, che possono essere differentemente compromesse da patologie cerebrali di varia eziologia.

 

A chi si rivolge la neuropsicologia?

La valutazione neuropsicologica ha come obiettivo di identificare, descrivere, quantificare i deficit cognitivi e comportamentali acquisiti dopo una lesione o disfunzione cerebrale.

L’esame neuropsicologico si rivolge a pazienti che presentano varie patologie, tra cui:

- Patologie del Sistema Nervoso Centrale;

- Demenze senili e presenili, Decadimento cognitivo o con difficoltà intellettive d’altra        natura;

- Malattia di Parkinson;

- Sclerosi Multipla;

- Ictus;

- Cerebropatie Vascolari;

- Traumi cranici;

- Interventi di neurochirurgia.

 

Quali sono le finalità di un esame neuropsicologico?

1. Finalità diagnostica: l’esame neuropsicologico è necessario per l’individuazione, la quantificazione e l’inquadramento clinico di disfunzioni cognitive conseguenti a patologie neurologiche.

2. Finalità prognostica: la valutazione neuropsicologica può fornire delle indicazioni sull’esito di alcune patologie, come ad esempio il trauma cranico e l’ictus cerebrale. I fattori prognostici sono indispensabili per pianificare le opzioni di trattamento riabilitativo, per garantire un progetto individualizzato, per fornire alla famiglia un’informazione corretta sulle possibilità di recupero e anche per prevedere le necessità assistenziali a lungo termine.

3. Programmare l’assistenza e gli interventi: l’esame neuropsicologico fornisce informazioni dettagliate sullo stato cognitivo, sulla presenza di alterazioni comportamentali e di personalità fondamentali per dare indicazioni circa i limiti imposti dalla vita quotidiana.

4. Programmare e monitorare il progetto riabilitativo: dopo la valutazione, si predispongono interventi mirati a diminuire e/o recuperare le funzioni cognitive, i disordini psico-comportamentali ed emotivi, stimolando anche le funzioni risparmiate.

L’intento è quello di incrementare le capacità personali del paziente al fine di migliorare la sua vita quotidiana e quella dei suoi famigliari.

I famigliari svolgono un ruolo fondamentale nell’assistenza del paziente neurologico; è indispensabile, pertanto, coinvolgere la famiglia nel progetto riabilitativo e considerarla una risorsa, sostenendola attraverso un’adeguata formazione e, se necessario, un supporto psicologico.

 

La riabilitazione neuropsicologica

Dopo un’attenta valutazione neuropsicologica, il neuropsicologo propone delle misure terapeutiche al fine di permettere e/o migliorare il reinserimento sociale, scolastico o lavorativo.

Si compone di due parti:

  • la riabilitazione neuropsicologica: serve a favorire il recupero delle abilità cognitive danneggiate per compensare i deficit e migliorare la capacità d’adattamento del paziente. Il trattamento si occupa anche dei disturbi del comportamento ed emozionali.
  • la stimolazione neuropsicologica: esercita le abilità preservate e ha come obiettivo di mantenere l’autonomia del paziente il più a lungo possibile.

Il trattamento comprende:

  • la riabilitazione delle funzioni cognitive;
  • adattamenti ambientali per ridurre l’impatto del danno;
  • la prevenzione e trattamento delle complicanze;
  • pianificazione dell’assistenza e supporto ai famigliari;
  • istruzione, educazione e sostegno per il caregiver.

 

In definitiva la neuropsicologia permette la visualizzazione di un panorama, il più possibile chiaro, di eventuali deficit funzionali nonché delle capacità residue del soggetto, in modo da supplire, il più possibile, ai primi, facendo leva sulle seconde. Infine, si occupa anche di sostegno psicologico dei pazienti e dei loro familiari.

Dott.ssa Elisa La Marra

“Pace interiore”: guardare dentro per crescere fuori

Avere un figlio di 9 anni, come sanno i genitori, porta a conoscere quasi a memoria una discreta quantità di cartoni animati, alcuni più interessanti, altri più scontati ma a volte, guardando bene, ci possiamo scovare davvero piccole perle come quelle presenti nella serie di Kung Fu Panda.

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La prima che mi ha colpito è in Kung Fu Panda 1: al maestro Shifu è stato dato il compito di addestrare un grosso panda, piuttosto goffo e pasticcione a diventare il “guerriero dragone”, ovvero colui destinato a salvare la popolazione della valle da un nemico imbattibile nemmeno dai suoi allievi migliori. Il panda, di nome Po, si dimostra totalmente inadeguato e viene allontanato e schernito dagli altri allievi ma Shifu, che è un maestro saggio, si rende conto che il tipo di addestramento utilizzato con gli altri non funzionerà con Po. Un giorno passeggiando per il corridoio vicino alla dispensa vede Po che, in piena crisi, ingurgita dei biscotti che erano riposti in uno scaffale davvero in alto, difficilmente raggiungibile da una persona poco agile, e spiandolo, nota come Po, spinto dalla ricerca compulsiva di cibo, riesca a compiere evoluzioni straordinarie in modo del tutto inconsapevole: ecco! Ha trovato la strategia giusta per addestrarlo!!

Piano piano Po, guidato da Shifu, svilupperà sempre più consapevolezza della propria forza interiore e in un modo tutto suo, unico e speciale, riuscirà a compiere il suo destino.

 

Mi ha colpito perché ci sono tanti rimandi: il primo è una riflessione per gli insegnanti in particolare ma anche per chi, come me, facilita la crescita personale, ed è relativo alle strategie di apprendimento. Ognuno di noi è diverso e ciò che può avere funzionato per la maggior parte degli allievi o dei coachee (persona che si rivolge al coach), improvvisamente in alcuni casi non funziona più! Allora pensare che sia “l’altro” ad essere inadeguato o che il tuo coachee sia “sbagliato” per te (mi rivolgo ai coach) ci impedisce di trovare nuove vie d’esplorazione. Occorre mettersi in discussione e assumersi la responsabilità di ciò che accade aprendosi a ciò che di vero e di speciale c’è in quella persona, diversa da tutti gli altri. Tutti noi abbiamo delle strategie e dei “driver” che ci portano a cambiare e che spesso rimangono nella dimensione dell’inconsapevolezza ed è importante scoprirli con una buona dose di curiosità.

 

Il secondo rimando è: quanto ognuno di noi è consapevole del proprio valore?! Quanto siamo in grado di liberare il nostro potenziale e di “compiere il nostro destino”? Le pratiche per l’esplorazione di sé possono aiutare molto nel trovare delle risposte, il coaching è una di queste ma ce ne sono tante altre e io credo che ognuno trovi la propria via in questo tipo di percorsi, non ce n’è una più giusta di un’altra, c’è solo ciò che è giusto per te in questo momento, e in futuro magari sarà diverso. Penso però una cosa, che sia davvero importante trovare un modo per esprimere la propria forza creativa e prendere il controllo della propria vita e sono convinta che ognuno di noi possa diventare un “guerriero dragone”!

Luisa Danieli

“Dall’impressionismo al coaching” di Luisa Danieli

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Recentemente alla mostra di Monet di Torino sono rimasta rapita da una citazione scritta su una parete del museo che recitava:

The subject is something secondary. What I want to reproduce is what exists between me and the subject

che tradotto potrebbe suonare così “Il soggetto/oggetto è qualcosa di secondario. Ciò che voglio riprodurre è ciò che esiste tra me e il soggetto/oggetto.” Ecco quindi l’approccio impressionista che mi ha immediatamente rimandato a come ognuno di noi rappresenta la propria realtà … per gli impressionisti si trattava di rappresentare un immateriale, percezioni, impressioni, luci … per noi quotidianamente è il raccontarci la nostra realtà. E quindi quando hai un problema è molto utile iniziare ad esplorare come lo percepisci. Un primo passo per andare verso la sua soluzione è sviluppare più consapevolezza rispetto al tipo di “occhiali” o di punti di vista attraverso i quali osservi il problema. Ma come si fa? Parti dall’analisi del linguaggio che usi per descriverlo, ti propongo un esercizio utile a questo scopo:

  1. scrivi su un diario il problema, descrivilo a ruota libera, senza filtri, come se lo stessi raccontando alla tua migliore amica;
  2. ora lascia passare un pò di tempo e poi  rileggi ciò che hai scritto come se fossi un osservatore esterno, come se fosse il racconto di qualcun altro e analizza le parole che hai usato;
  3. prova a cercare: ci sono metafore? Ci sono delle idee/parole/concetti ripetuti più volte? C’è qualche passaggio che ti colpisce in particolare? Riconosci le tue  credenze/opinioni o giudizi che emergono e che sono poco utili o limitanti?

 

Questo esercizio può aiutare a sviluppare maggiore consapevolezza e riconoscere che è il tuo modo di guardare alla realtà che ti sta ostacolando, non è certamente un punto di vista sbagliato, anzi, è sacrosanto, non stiamo dando giudizi di valore, semplicemente va appreso un modo di guardare alla realtà più utile a facilitare il cambiamento che desideri!

Spero che questo esercizio possa esserti utile.

Se vuoi fare un lavoro più strutturato, un percorso di coaching individuale può essere un modo per accelerare o sbloccare situazioni di stallo e realizzare i tuoi obiettivi.

Se vuoi sapere qualcosa di più sul coaching ecco un link alla International Coach Federation (ICF) https://www.icf-italia.org

 

Luisa Danieli